Recensioni sui giornali nazionali all’edizione einaudiana, da me curata, del “Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni” di Voltaire

L’Espresso-01 ottobre 2017, pp. 108-109

 

Eugenio Scalfari

Dio e il male secondo Voltaire

Nel “Saggio sui costumi” del grande illuminista le idee che hanno cambiato insieme la cultura e la politica

L’editore Einaudi ha pubblicato pochi giorni fa nell’edizione “I Millenni” due volumi di mille pagine ciascuno di Voltaire con il titolo “Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni”. L’ho ricevuto già da due settimane, ho consultato con attenzione l’indice generale ed ho individuato i capitoli che sarebbe opportuno leggere. Sono del massimo interesse, soprattutto per chi conosce abbastanza il pensiero di François-Marie Arouet, il suo vero nome che quando fu in età di ragione trasformò in uno pseudonimo che è diventato il suo nome vero e proprio.

Dal canto mio desidero ricordare che nel 1995, cioè 22 anni fa, scrissi un libro dal titolo “Alla ricerca della morale perduta”. Contiene molte mie riflessioni ed anche un’ampia e naturalmente immaginaria intervista con Voltaire. Alcuni brani attribuiti nel libro a Voltaire sono presi direttamente dai suoi scritti e quindi possono essere pubblicati come suo pensiero.

Scrisse moltissimo il nostro Voltaire: saggi, trattati di filosofia, racconti, tragedie, commedie, riflessioni, storia. Morì nel 1778 e tredici anni dopo, durante la Rivoluzione francese, fu sepolto al Pantheon insieme a Rousseau. Erano molto diversi l’uno dall’altro ma furono i protagonisti dell’Illuminismo insieme a Diderot e d’Alembert. Un quadrivio che contrassegnò un’epoca e un movimento culturale che raggiunse il culmine della modernità. Ma torniamo al Voltaire dell’“Essai” contenuto nei due volumi dei quali stiamo parlando.

In pratica sono scritti, a volte lunghi e altre volte molto brevi, di filosofia e di storia, una mescolanza molto positiva che arriva fino a “Il secolo di Luigi XIV”. I titoli che mi permetto di segnalare sono i seguenti: “Carlo Magno, sue ambizioni e sua politica”, “Ottone il Grande nel X secolo”, “La Francia all’epoca di Ugo Capeto”, “La crociata contro gli Occitani”, “Il re di Francia Filippo il Bello e Bonifacio VIII”, “Il supplizio dei Templari”, “L’invasione della Francia da parte di Enrico V re d’Inghilterra”, “L’Italia nel XV secolo”, “Savonarola”, “Conquista dell’Inghilterra da parte di Guglielmo di Normandia”, “Federico Barbarossa”, “Carlo d’Angiò e Manfredi, la battaglia di Benevento”, “L’Italia e l’assassinio di Galeazzo Sforza e dei Medici”, “Lutero sulle indulgenze”, “L’Inquisizione”, “Il Paraguay e la dominanza dei gesuiti”, “La battaglia di Lepanto”, “La regina Elisabetta d’Inghilterra”, “Il Concilio di Trento”, “Il cardinale di Richelieu”, “Cromwell”, “I turchi e l’assedio di Vienna”. E qui mi fermo, ce n’è abbastanza. Ma ora cercheremo di capire come la pensava Voltaire sui temi di maggior rilievo come la filosofia, la storia, la vita, l’anima ed anche la morte.

Per capirlo bisogna naturalmente citare quello che pensa e che si ritrova leggendo alcuni dei suoi libri fondamentali. Una delle riflessioni più interessanti si trova nel capitolo 29 del libro di cui parliamo e intitolata “Sulle metamorfosi presso i greci, raccolte da Ovidio”. «L’opinione della trasmigrazione delle anime conduce naturalmente alle metamorfosi. Ogni idea che colpisce e diverte l’immaginazione è ben presto accolta da tutti. Quando mi avrete convinto che la mia anima può entrare nel corpo di un cavallo non vi sarà difficile farmi credere che anche il mio corpo può essere trasformato in cavallo. Un dio non può manifestarsi a noi altrimenti che trasformandosi in uomo. È vero che Giove assunse la forma di un bel cigno per godere di Leda, ma simili casi sono rari e in tutte le religioni la Divinità prende sempre forma umana quando viene a impartire ordini. Sarebbe infatti difficile comprendere la voce degli dèi se ci si presentassero in forma di orsi o di coccodrilli. Insomma, quasi dappertutto gli dei mutarono forma e appena venimmo a conoscenza dei segreti della magia anche noi cominciammo a trasformarci. Parecchie persone degne di fede si trasformarono in lupi: la parola lupo mannaro attesta tra noi questa metamorfosi. Il fatto che non si possa dimostrare rigorosamente la loro esistenza contribuisce molto a far credere a tutte queste trasmutazioni e a tutti i prodigi di tal fatta. Non c’è alcun argomento da opporre a chiunque vi dirà: “Un dio è venuto a casa mia ieri sotto forma di un bel giovane e tra nove mesi mia figlia partorirà un bel bambino che dio si è degnato di farle fare”. Se l’uomo diventerà lupo vi assicura di avere veramente subito questa metamorfosi. Certamente si può dimostrare davanti ai giudici che questa cosa non è vera ma del resto se un bruco si trasforma in farfalla, un uomo può essere trasformato in bestia con la stessa facilità e se controbatterete sarete definito un empio che non crede né ai lupi mannari né agli dei che mettono incinte le ragazze». Voltaire spesso scriveva con abbondante e voluta ironia mentre altre volte prendeva il tema molto sul serio. Eccone qualche esempio. «La benevolenza verso gli altri rende possibile il rapporto tra l’individuo e la società. Senza il sentimento morale la società non esisterebbe. È un’affermazione un po’ estrema ma corrisponde al mio modo di vedere il mondo e la divina spinta che l’ha creato. Del resto, anche nel più orribile assassino e il più turpe delinquente c’è una stilla sia pure infinitesima di morale perché Dio l’ha collocata nella natura dell’uomo. La morale è un sentimento naturale che rende possibile all’individuo di convivere con i suoi simili. Prima la morale naturale e poi la convivenza civile, non viceversa. Credete che un individuo che vivesse perfettamente solo non avrebbe dentro di sé un barlume di moralità? Ce l’ha per il fatto stesso di essere uomo. L’uomo è una creatura morale e questa è opera di Dio, così come gli uccelli volano e i serpenti strisciano perché è quella la loro natura». E prosegue: «L’esistenza della morale naturale è la prova dell’esistenza di Dio, così come il Creato è la prova dell’esistenza del Creatore». Ogni tanto ci sono, anche se molto di rado, alcuni brani poetici che contengono le sue verità dette con saggezza ma anche una goccia di ironia che è tipica di questo grande scrittore. Eccone una: “Il le faut avouer, le mal est sur la terre: Son principe secret ne nous est point connu. De l’auteur de tout bien le mal est-il venu? Un Dieu vint consoler notre race affligée; Il visita la terre, et ne l’a point changée”. Ma poi prosegue dicendo (e questa è una affermazione fondamentale): «Dio è stato il Grande Meccanico che ha fabbricato il mondo. Ed ha modellato la statua dell’uomo animandola con la morale. Nello stesso tempo il diavolo, con un soffio ancor più potente, ha messo dentro a quella statua l’egoismo, con tutti i suoi derivati. Oppure è Dio che ha compiuto sia l’una che l’altra operazione? In realtà quest’ipotesi vale l’altra e infine che differenza fa? Ai miei occhi nessuna. Dalla convivenza di quei due elementi è nata comunque la condizione umana». Quando Voltaire nel 1791 fu sepolto al Pantheon, il corteo funebre passò alle rovine della Bastiglia: su una delle pietre c’era questa iscrizione: «Reçois en ce lieu où t’enchaîna le despotism, Voltaire, les honneurs que te rende la Patrie».

Mi sembra che questa iscrizione condensi in due righe la funzione politica di Voltaire. Naturalmente la sua funzione culturale fu maggiore di quella politica, ma la politica in qualche modo ne fa parte perché l’Illuminismo fu il movimento che ha contribuito a cambiare profondamente la cultura moderna.

 

 

 

 

Il Sole-24 Ore– Domenica 17 Settembre 2017, p. 23

Armando Massarenti

Voltaire, storia universale della menzogna

Articolo di Armando Massarenti (Sole 17.9.17) “sul libro di Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, a cura di Domenico Felice. Einaudi, I Millenni, Torino, € 150). Ampio stralcio delle conclusioni del «Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni» di Voltaire intitolate «Riassunto di tutta questa storia fino al tempo in cui comincia il bel secolo di Luigi XIV»” «Presso tutte le nazioni, la storia è sfigurata dalla favola: la filosofia trova gli uomini così accecati che fatica con la ragione a disingannarli»”

«Ho percorso questo vasto teatro delle rivoluzioni a partire da Carlo Magno, e persino risalendo spesso molto più indietro, fino al tempo di Luigi XIV. Quale sarà il frutto di questo lavoro? Quale profitto si trarrà dalla storia? Vi si sono visti i fatti e i costumi; vediamo quale vantaggio ci verrà dalla conoscenza degli uni e degli altri.

«Sui fatti storici. Un lettore di buon senso si accorgerà facilmente di dover credere solo ai grandi avvenimenti che hanno qualche verosimiglianza, e considerare con disprezzo tutte le favole di cui il fanatismo, lo spirito romanzesco e la credulità hanno riempito in ogni tempo la scena del mondo. Costantino trionfa sull’imperatore Massenzio; ma certamente non gli apparve un labarum tra le nubi, in Piccardia, con un’iscrizione in greco. Macchiato di assassinî, Clodoveo si fa cristiano e commette nuovi assassinî; ma né una colomba gli reca un’ampolla per il suo battesimo né un angelo scende dal Cielo per consegnargli uno stendardo. Un monaco di Chiaravalle può predicare una crociata, ma bisogna essere stolti per scrivere che Dio fece miracoli per mano di questo monaco al fine di assicurare il successo di quella crociata, che fu tanto sfortunata quanto follemente intrapresa e mal condotta. Il re Luigi VIII può morire di tisi, ma solo un fanatico ignorante può dire che gli amplessi di una ragazza l’avrebbero guarito e che egli morì martire della sua castità.

«Presso tutte le nazioni, la storia è sfigurata dalla favola, sino a che la filosofia viene alla fine a illuminare gli uomini; e quando finalmente giunge in mezzo a quelle tenebre, la filosofia trova gli spiriti talmente accecati da secoli di errori che riesce appena a disingannarli; trova cerimonie, fatti e monumenti istituiti per certificare menzogne. In che modo avrebbe potuto, per esempio, un filosofo, nel tempio di Giove Statore, persuadere la plebe che Giove non era disceso dal Cielo per fermare la fuga dei Romani? Nel tempio di Castore e Polluce, quale filosofo avrebbe potuto negare che questi due gemelli avessero combattuto alla testa delle truppe? Non gli avrebbero mostrato l’impronta dei piedi di codesti due dèi conservata sul marmo? I sacerdoti di Giove e di Polluce non avrebbero forse detto a quel filosofo: «Criminale miscredente, non siete forse costretto ad ammettere, vedendo la colonna rostrale, che abbiamo vinto una battaglia navale di cui questa colonna è il monumento? Ammettete dunque che gli dèi sono scesi sulla Terra per difenderci e non bestemmiate i nostri miracoli dinanzi ai monumenti che li attestano».

«È così che, in ogni tempo, ragionano l’impostura e l’imbecillità. Una principessa idiota costruisce una cappella dedicata alle undicimila vergini; il vicario parrocchiale non dubita che le undicimila vergini siano esistite e fa lapidare la persona di buon senso che ne dubita. I monumenti provano i fatti solo quando questi fatti verosimili ci vengono trasmessi da contemporanei illuminati. […]

 

Sui costumi asiatici paragonati ai nostri.

«Nel corso di tante rivoluzioni, si è potuto notare che, in Europa come in Asia, si sono formati popoli quasi selvaggi nelle contrade un tempo più civilizzate. Una certa isola dell’Arcipelago egeo, uno straniero vede passare il bene di suo padre al fisco regio, sussiste ancora in tutti i regni cristiani, a meno che non vi si deroghi con accordi specifici. Noi pensiamo ancora che, in tutto l’Oriente, le donne siano schiave perché sono vincolate a una vita domestica. Se fossero schiave, alla morte dei loro mariti sarebbero dunque costrette a mendicare; ciò non avviene: esse hanno dappertutto una porzione dei beni stabilita dalla legge e ottengono questa porzione in caso di divorzio.

«Da un capo all’altro del mondo, trovate leggi istituite per il mantenimento delle famiglie. Esiste dappertutto un freno imposto al potere arbitrario dalla legge, dalle usanze o dai costumi. Il sultano turco non può né apportare cambiamenti alla moneta né destituire i giannizzeri né immischiarsi in quanto avviene all’interno dei serragli dei propri sudditi. L’imperatore cinese non promulga alcun editto senza la sanzione di un tribunale. In ogni Stato, si subiscono dure violenze. I gran visir e gli itimadulet commettono omicidî e rapine, ma non sono autorizzati a farlo dalle leggi più di quanto non lo siano gli Arabi e i Tartari nomadi a depredare le carovane.

«La religione insegna la stessa morale a tutti i popoli senza alcuna eccezione: le cerimonie asiatiche sono bizzarre e le credenze assurde, ma i precetti sono giusti. Il derviscio, il fachiro, il bonzo e il talapoin dicono dappertutto: «Siate equi e caritatevoli». Al popolo minuto della Cina si rimproverano molti atti sleali nel commercio: forse è incoraggiato a questo vizio dal fatto di poter acquistare, per poco denaro, dai suoi bonzi l’espiazione di cui crede di aver bisogno. La morale che gli viene suggerita è buona; perniciosa è l’indulgenza che gli viene venduta.

«Invano alcuni viaggiatori e alcuni missionari ci hanno rappresentato i sacerdoti d’Oriente come predicatori dell’iniquità; questo significa calunniare la natura umana: non è possibile che mai esista una società religiosa istituita per indurre al delitto. […] Non meno sbagliato è credere che la religione dei musulmani si sia affermata solo grazie alle armi. I maomettani hanno avuto i loro missionari in India e in Cina, e la setta di Omar combatte la setta di Ali a parole fin sulle coste del Coromandel e del Malabar.

«Da questo quadro risulta che ciò che è intimamente collegato alla natura umana si assomiglia da un capo all’altro del mondo; che tutto ciò che può dipendere dalla consuetudine è diverso, e che è un caso se è simile. L’impero della consuetudine è molto più vasto di quello della natura: si estende ai costumi e a tutte le usanze; diffonde la varietà sulla scena del mondo; la natura vi diffonde l’unità e stabilisce dappertutto un piccolo numero di principî invariabili: perciò, il terreno è dappertutto lo stesso, ma la coltivazione produce frutti diversi.

«Poiché la natura ha posto nel cuore degli uomini l’interesse, l’orgoglio e tutte le passioni, non sorprende che si sia vista, in un periodo di circa dieci secoli, una sequenza quasi ininterrotta di delitti e di disastri. Se risaliamo alle epoche precedenti, esse non sono migliori. La consuetudine ha fatto sì che il male sia stato compiuto da ogni parte in maniera differente.

«In base al quadro che abbiamo tracciato dell’Europa dal tempo di Carlo Magno ai nostri giorni, è facile giudicare come questa parte del mondo sia incomparabilmente piú popolata, piú civilizzata, piú ricca e piú illuminata di quanto non lo fosse allora, e che essa sia anche molto superiore a ciò che era l’Impero romano, se si esclude l’Italia. […]

«Una delle ragioni che, in generale, hanno contribuito a popolare l’Europa è il fatto che, nelle innumerevoli guerre che tutte le province hanno patito, le nazioni vinte non sono state deportate. Carlo Magno spopolò, a dire il vero, le rive del Weser; ma si tratta di un piccolo cantone che con il tempo si è ristabilito. I Turchi hanno deportato molte famiglie ungheresi e dalmate, cosicché quei paesi non sono abbastanza popolati; e la Polonia manca di abitanti solo perché là il popolo è ancora schiavo. In quale stato florido sarebbe dunque l’Europa senza le guerre continue che la sconvolsero per interessi futilissimi e spesso per piccoli capricci! A quale grado di perfezione sarebbe giunta la coltivazione delle terre, e quanto maggiore aiuto e agiatezza avrebbero dispensato nella vita civile le arti che lavorano questi prodotti, se non si fosse sepolto dentro i chiostri quello stupefacente numero di uomini e di donne inutili! Uno spirito umanitario nuovo, che è stato introdotto nel flagello della guerra e che ne mitiga gli orrori, ha contribuito inoltre a salvare i popoli dalla distruzione che pare minacciarli in ogni istante.

«Quando conosce le arti e quando non è sottomessa e deportata dagli stranieri, una nazione risorge facilmente dalle sue rovine e si ristabilisce sempre.

 

 

 

 

Articolo di Armando Massarenti:

Sebbene Voltaire non abbia mai davvero pronunciato il più famoso dei suoi aforismi – «disapprovo la tua idea, ma combatterò fino alla morte perché tu possa esprimerla liberamente» – è proprio la difesa della libertà di espressione, unita alla parola d’ordine écrasez l’Infame, schiaccia l’infame (cioè le chiese e il fanatismo religioso), il tratto che contraddistingue più di ogni altro la sua intera opera, ed è l’esito naturale di ogni riflessione e ricostruzione contenuta nel Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, concepito nel 1740 e pubblicato per la prima volta nel 1753, di cui esce in questi giorni la pregevole edizione nei Millenni Einaudi: due volumi per quasi duemila pagine in cui l’autore presenta, in 197 capitoli, un affresco delle civiltà umane e della loro storia. A partire dalla Cina, considerata, sulla scorta delle scoperte dei gesuiti, la civiltà che ha anticipato buona parte delle nostre invenzioni, ben più antica e stabile nel rispetto delle leggi – in epoca moderna a Voltaire solo il sistema inglese, dopo l’istituzione della Camera dei Comuni, pare promettente, – la sola che sia stata capace, grazie al confucianesimo, di instillare in maniera costante i principi morali e del buon governo in una popolazione dove le élite venivano selezionate in base al merito. Altri 53 brevi capitoli costituiscono il compendio intitolato La filosofia della storia, un’espressione che avrebbe avuto grande fortuna a partire da Hegel che ricalcò sul Saggio volterriano la sua monumentale storia dello spirito umano, introducendo però un elemento finalistico molto ideologico: per cui ritornare a Voltaire può essere oggi, sia detto per inciso, un utile toccasana per tentazioni alla Fukuyama di dichiarare improbabili fini della storia. Voltaire intendeva, più modestamente, mettere al servizio della storia umana, oltre alle proprie straordinarie doti letterarie, una filosofia capace di smascherare, attraverso la ragione e lo spirito critico, le infinite assurdità che erano contenute nelle ricostruzioni correnti, le quali non si preoccupavano di distinguere i fatti (più o meno probabili) dai pregiudizi, la superstizione, le dicerie, le favole irrazionali, i veri e propri imbrogli del potere religioso e politico. La ragione è anche riconosciuta come un sia pur fragile fattore di progresso, che si manifesta a sprazzi in una umanità in cui prevale l’opinione fallace e incontrollata. La religione, d’altro canto, di cui Voltaire riconosce nelle culture più diverse una base morale universale, si manifesta però in varie forme di fanatismo, di violenza e di oscurantismo. Eppure, da deista, così riassume le motivazioni di un buon temperamento umano: «È la grazia che spinge il cristiano ad agire mentre la ragione muove il filosofo». E con eguale grazia la ragione, la filosofia, è pronta a riconoscere certe abilità intrinseche alla natura umana, non solo in ambito morale, che vengono prima della stessa riflessione razionale. «Anche in quei secoli rozzi [il Medioevo] si ebbero invenzioni utili, frutto di quella propensione alla meccanica che la natura dà a certi uomini, alquanto indipendentemente dalla filosofia». «Chiunque vuole leggere la storia come cittadino e come filosofo» … «Vorrà sapere come le arti, le manifatture si sono formate; seguirà il loro passaggio e il loro ritorno da un paese all’altro. I mutamenti nei costumi e nelle leggi saranno infine il suo grande oggetto d’interesse. Si conoscerà così la storia degli uomini invece di sapere una esigua parte della storia dei re e delle corti». In affermazioni come queste – osserva Roberto Finzi nell’introduzione – Voltaire anticipa, a dispetto di chi considera l’Illuminismo un’epoca priva di senso storico, lo spirito della «nuova storia» novecentesca delle «Annales» e inaugura, dopo Montesquieu, quella che verrà chiamata «l’histoire de la civilisation», la storia dell’incivilimento. Una storia in cui, alla lunga, la società migliora e si perfeziona, ma sempre con scarse garanzie di successo per la ragione e per il pensiero critico. Nel Dizionario filosofico si racconta di un uomo che affronta con coraggio l’azione dei potenti (da John Law al papa al doge di Venezia al “mufti” di Costantinopoli) argomentando e mettendo in rilievo le contraddizioni di quei grandi della Terra, finendo via via in prigione e infine impalato. «Eppure – commenta Voltaire – aveva avuto sempre ragione».

[Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni , a cura di Domenico Felice. Traduzione di Domenico Felice, Lorenzo Passarini, Fabiana Fraulini e Piero Venturelli. Introduzione di Roberto Finzi. Tomo primo pagg.CXXXIX + 866; Tomo secondo pagg XV + 963, Einaudi, I Millenni, Torino, € 150]

 

 

BLOG di Ernesto Ferrero

Consigli per gli acquisti

Monumentale e benemerita impresa nei “Millenni” Einaudi: il Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni di Voltaire, di cui esisteva soltanto in italiano soltanto un’edizione per il Club del libro del 1966-67, a cura di Marco Minerbi, da tempo introvabile. Il curatore è Domenico Felice, che firma le traduzioni insieme a Lorenzo Passarini, Fabiana Fraulini e Piero Venturelli: eroici e meritevoli della nostra gratitudine.

Sono due tomi di pp. CXXXIX-870 e 965 pagine al costo non indifferente di € 150, ma si tratta di uno di quegli investimenti da prendere in attenta considerazione. Perché in quanto a fascino di lettura, Voltaire non ha niente da invidiare a Chateaubriand, che probabilmente ha molto imparato da lui. Il Saggio si potrebbe anche intitolare, borgesianamente, Storia universale dell’infamia, perché a partire dai Sumeri quella che Voltaire racconta è una storia di fanatismi, intolleranze, violenze, guerre, disastri e delitti che hanno insanguinato per millenni la storia dell’umanità. Non c’è epoca, regione del mondo o personaggio storico che Voltaire non padroneggi, e soprattutto non sappia restituircelo con una irresistibile verve giornalistica, come gli riconosce anche Isaiah Berlin. Un comunicatore straordinario, un incantatore di immenso talento che ci tiene avvinti sulla pagina.

Naturalmente non importa che tutto quello che racconta sia storicamente fondato. Quello che ci interessa è l’affermazione del valore civile della storia che, come scrive il prefatore Roberto Finzi, non è la ricerca, una volta per tutte, del vero assoluto e indubitabile, ma una continua investigazione per rispondere ai problemi che il presente impone a chi si interroga sul mondo e sui suoi destini. Senza dire che Voltaire è il pioniere di un allargamento del campo della storia all’economia e a quelle che oggi chiamiamo le culture materiali, e a mondi diversi da quello europeo. Non solo, a Voltaire interessano anche le opinioni, soprattutto le più fallaci e assurde, perché sono quelle a governare il mondo. Così accade che la menzogna finisca per asservire i popoli, incatenarli e depredarli. Parole che sembrano scritte per l’oggi, in cui i gadget digitali veicolano una quantità spaventosa di bufale, false notizie, invenzioni criminali e idiozie.

Tra gli obiettivi polemici di Voltaire c’è anche la deriva delle istituzioni religiose, e della Chiesa in primis, che hanno trasformato un messaggio morale in dogmi generatori di fanatismo, violenze e guerre. Così è accaduto che la “santa e dolce religione” del Fondatore “è diventata con i nostri furori la più intollerante di tutte, e la più barbara”.

E tuttavia, in polemica con Rousseau, Voltaire è convinto che le società si possano civilizzare e perfezionare, sia pure tra mille difficoltà, praticando la commiserazione, cioè la pietas verso gli altri, e la giustizia cioè un ben calibrato sistema normativo.

Questa accelerazione possono imprimerla solo le grandi personalità, come è il caso di Enrico IV. Esistono solo quattro età felici che hanno conosciuto la perfezione delle arti: quella di Filippo e Alessandro, quella di Cesare e Augusto, quella dei Medici, quella di Luigi XIV. Ma oggi dove trovare i Grandi Acceleratori? Mai le classi dirigenti ci sono apparse così inadeguate, incolte, inette, incapaci di visione, di progettare nel lungo periodo invece che di guardare alla prossima scadenza elettorale. Il travolgente progresso delle tecnologie si accompagna a gravi difetti della vista, miopia, strabismo, cecità incombente. Temo che non ci sarà un nuovo Voltaire a raccontare gli ultimi capitoli di questa storia universale dell’infamia.

 

 

 

 

La Stampa, supplemento Tuttolibri, Sabato 4 Novembre 2017, pp. VI-VII

 

ERNESTO FERRERO

Clima, governo, religione: le chiavi di Voltaire per fare luce sull’infame enigma del mondo

La storia universale impegnò il filosofo per 40 anni: un’implacabile analisi di tutte le “fake news” dell’umanità

 

 

Nel 1740 il quarantaquattrenne Voltaire, tonificato dai successi teatrali e dalle abili speculazioni finanziarie che hanno fatto di lui un uomo ricco, mette mano a una sua Sistina storiografica programmando la prima storia universale mai tentata. Va da Carlo Magno a Luigi XIV, con vaste scorribande nei secoli e millenni precedenti, sino ai tempi i cui i mari dominavano la Terra, e con un occhio speciale all’Oriente, patria delle arte e delle scienze, e di un pensiero religioso nonviolento e non oppressivo, immune dalle superstizioni che affliggono l’Europa. Si intitola Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, ed è dedicato a Madame de Châtelet, l’amante in carica, esperta di chimica e fisica ma digiuna di storia. Vi lavorerà per quarant’anni con aggiornamenti e messe a punto (ben sette edizioni), consapevole di quanto sia difficile fare storia in assenza di documenti affidabili. Una storia da intendere come continua investigazione per rispondere ai problemi del presente.

La si potrebbe anche intitolare, borgesianamente, Storia universale dell’infamia, perché rievoca puntigliosamente millenni di massacri insensati, fanatismi assortiti, lotte famigliari per il potere all’insegna dell’assassinio. Ma se Borges falsifica le biografie di uomini realmente esistiti, Voltaire va nella direzione opposta: intraprende una gigantesca opera di disincrostazione della storia dalle leggende che l’hanno deformata, sino a renderla una favola buona per asservire i popoli d’ogni tempo e Paese. Perché è un istinto belluino, più che la ragione, a guidare il genere umano. Ovunque si adora la divinità e la si disonora. Rare sono le isole felici di civiltà: tra queste l’Italia del Rinascimento, dei Medici e di Galileo.

La gran novità del Saggio è che va ben oltre le solite cronistorie di re e di battaglie. Voltaire vuole indagare da filosofo-antropologo gli usi e i costumi dei popoli, nessuno escluso: le mentalità, le pratiche religiose, le arti, le culture materiali, le tecniche produttive, il valore delle monete, i contesti geografici, anticipando di due secoli quelle che poi saranno le ricerche della scuola parigina delle «Annales» di Braudel, Le Goff, Duby e affini. Insomma «la vita concreta degli uomini». Ci vogliono secoli perché un popolo esca da uno stadio più o meno ferino ed elabori un linguaggio e un’etica capace di incarnarsi in leggi ragionevoli. «Tre cose agiscono sullo spirito degli uomini: il clima, il governo e la religione: sono queste le uniche chiavi per spiegare l’enigma del mondo». Quello che rende travolgente la narrazione è la vivacità di una scrittura che inaugura il giornalismo moderno (il feuilleton, secondo Isaiah Berlin) e si offre come modello a Châteaubriand per le sue altrettanto fascinose Memorie d’oltretomba. Non solo: Voltaire è l’implacabile analista di quelle che oggi chiamiamo fake news. Se sono le opinioni a dominare il mondo, diventa decisivo identificare e combattere quelle manifestamente false. Le grottesche invenzioni che hanno a insanguinato i millenni sono tuttora vivissime e, propalate dalle tecnologie digitali, rendono allarmante anche il nostro futuro di «webeti» creduloni: «I maestri della menzogna fondano il proprio potere sulla stupidità umana». Voltaire pratica l’equivalente di un moderno fact-checking, in cui l’Europa non è più il centro del mondo. Della Cina apprezza l’invenzione della carta, della scrittura, della ceramica e le accurate osservazioni astronomiche che precedono quelle dei babilonesi di quattrocento anni. Non si fa incantare dalla monumentalità dell’antico Egitto: «Conobbero il grandioso, mai il bello». Le stesse piramidi sono un monumento al dispotismo, alla schiavitù e alla superstizione. Gli Arabi non sono il nemico per eccellenza. Al contrario, di Maometto, che si autodefiniva poeta e letterato, apprezza il coraggio, la generosità, la sobrietà, la tolleranza, la stessa imposizione del monoteismo, la promozione delle arti e scienze. I veri nemici semmai sono gli Ebrei, cui non risparmia i pregiudizi del suo tempo, anche se «noi non siamo altro se non ebrei con il prepuzio».

In Italia il Saggio era stato tradotto cinquant’anni fa per le cure di Marco Minerbi, diventato presto introvabile. È dunque una vera e grande impresa quella adesso vede la luce nei «Millenni Einaudi», a cura di Domenico Felice, docente di Storia della filosofia a Bologna, con l’introduzione di Roberto Finzi e 36 incisioni acquerellate del settecentesco viaggiatore canadese Jacques Grasset, pittore di costumi esotici, dai montanari messicani ai circassi e ai nativi delle Molucche. Sono due tomi che sfiorano le mille pagine, equipaggiati di tutto punto e con un prezioso indice dei nomi. Il costo non indifferente va considerato alla stregua di un buon investimento.

 

 

 

 

 

 

Il Fatto Quotidiano, lunedì 6 novembre 2017, p. 10

MAURIZIO VIROLI

 

La storia come maestra di vita non è più la bussola dei politici

 

Di questi tempi in cui i libri, soprattutto quelli di seria cultura, sono ormai oggetti in via d’estinzione, le edizioni critiche di grandi opere meritano di essere celebrate. Quando poi si tratta di un’opera importante di storia e di filosofia, come il Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni di Voltaire – pubblicata da Einaudi in due tomi nella prestigiosa collana ‘I millenni’– è il caso di celebrare con entusiasmo: il piacere della lettura è garantito.

L’apparato critico curato da Domenico Felice rende accessibile e godibile il testo anche al lettore non specialista della materia. La cronologia della vita e delle opere di Voltaire aiuta a conoscere l’autore; la storia delle diverse edizioni e delle fonti permette di capire com’è nato il Saggio; la bibliografia critica è di per sé un documento di storia della cultura e invita a leggere qualche altro buon libro sull’argomento. Ma la parte più preziosa è la ‘Nota editoriale’ in cui Domenico Felice spiega che ha redatto l’apparato critico non per suggerire al lettore “che cosa deve capire”, ma di stimolare il suo spirito critico. Che era poi il modo in cui Voltaire auspicava si leggessero i suoi libri: “I più utili sono quelli fatti per metà dai lettori: costoro sviluppano i propri pensieri, di cui si offre loro il germe; correggono ciò che sembra loro manchevole e rinforzano con le proprie riflessioni ciò che pare loro debole” (p. CXXV).

Nota Roberto Finzi nella sua ‘Introduzione’ che soltanto in apparenza Voltaire resta legato ad una visione “oggi unanimemente rigettata” della historia magistra vitae. Ma i passi citati da Finzi suggeriscono piuttosto che Voltaire condivideva profondamente, e non in apparenza, l’idea che la storia è maestra di vita e in particolare di saggezza politica. “I grandi errori del passato, scrive Voltaire, servono molto in ogni campo. Non sarebbe eccessivo rimettere da- vanti agli occhi i crimini e le disgrazie causati da assurde contese. È indubbio che a forza di reiterare la memoria di queste contese si impedisce loro di rinascere”(t. I, p. XXXVIII).

Un esempio del modo in cui Voltaire trae dalla storia lezioni utili per la pace e la libertà dei popoli è nel capitolo dal titolo ‘Riassunto di tutta questa storia fino al tempo in cui comincia il bel secolo di Luigi XIV’ . Il “furore dogmatico, scrive, ha sconvolto più di uno Stato, dal massacro degli albigesi nel XIII secolo alla guerricciola delle Cévennes all’inizio del XVIII. Il sangue è stato versato nelle campagne e sui patiboli per questioni di teologia, ora in un paese ora in un altro, durante cinquecento anni quasi senza interruzioni. E questo flagello è durato così a lungo solo perché si è sempre trascurata la morale per il dogma” (t. II, p. 651). Se vogliamo evitare altre orrende guerre di religione, ammonisce chiaramente Voltaire, dobbiamo mettere di nuovo la morale al primo posto e abbandonare il furore dogmatico: una lezione di saggezza tratta dalla storia.

Forse gli storici dei nostri tempi hanno unanimemente rigettato la convinzione che la storia insegna, come ci assicura Finzi. Non l’hanno però rigettata i migliori filosofi politici e i migliori storici del pensiero politico. Valgano gli esempi di Michael Walzer che in The Revolution of the Saints e in Exodus and Revolution trae dalle narrazioni storiche lezioni di teoria politica; o di Quentin Skinner, che in Liberty before Liberalism si impegna in un lavoro di ricostruzione storica per arricchire le nostre concezioni di libertà politica. È tuttavia vero che ai giorni nostri il principio della storia maestra di vita non è la bussola dei politici. I risultati si vedono: si nota ovunque una vergognosa miseria intellettuale e una penosa incapacità di trarre dai più nobili esempi del passato l’ispirazione a perseguire grandi ideali.

Virtù propria delle grandi opere è di offrire ai lettori insegnamenti che valgono anche per tempi lontani e diversi da quelli nei quali l’autore ha vissuto. Il più utile, fra i molti che possiamo ricavare dal Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, è il consiglio a non dimenticare la forza della consuetudine: “L’impero della consuetudine è molto più vasto di quello della natura: si estende ai costumi e a tutte le usanze, diffonde la varietà sulla scena del mondo; la natura vi diffonde l’unità e stabilisce dappertutto un piccolo numero di principî invariabili: perciò il terreno è dappertutto lo stesso, ma la coltivazione produce frutti diversi” ( t. II, p. 656). Il pensiero filosofico e politico degli ultimi due secoli ha sottoposto a serie critiche la convinzione illuministica che al di sopra delle diversità culturali e storiche esiste una comune natura umana.

Questa convinzione ha dato origine alla teoria dei diritti naturali che ha guidato la formazione dei moderni Stati liberali e ha ispirato grandi lotte per l’emancipazione dalle ingiustizie santificate nel nome della consuetudine. Sarebbe del tutto insano dimenticarne il valore di barriera indispensabile contro i poteri tirannici e totalitari. Non va tuttavia dimenticato neppure il monito di Voltaire che la consuetudine è tenace, e che per modificarla al fine di affermare la dignità degli esseri umani occorrono saggezza e pazienza.

Il consiglio più utile, fra i molti che possiamo ricavare dal Saggio, è non dimenticare la forza della consuetudine.

 

 

 

 

 

il manifesto, supplemento Alias, Domenica 5 novembre 2017, p. 4

ANDREA CALZOLARI

Meglio un urone o un ottonotto che un nostro contadino

 

Roland Barthes ha sostenuto che Voltaire fu l’ultimo scrittore felice, tra l’altro perché ha potuto dimenticare la storia, alla quale viceversa si espose Rousseau, il suo antagonista. Di questa affermazione sembrerebbe lecito dubitare di fronte alle quasi duemila pagine del suo capolavoro storiografico, il Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, uscito da Einaudi, a cura di Domenico Felice (che l’ha tradotto insieme a Lorenzo Passarini, Fabiana Fraulini e Piero Venturelli, con un’introduzione di Roberto Finzi, 2 voll. pp. 866 + 963, € 150,00; l’unica precedente traduzione, dovuta a Marco Minerbi, era uscita nel 1966-67).

Sebbene si basino sull’edizione critica in corso di pubblicazione (Oxford, Voltaire Foundation, 8 voll. finora usciti, 2004-15), questi due tomi prendono garbatamente le distanze dalla ridondante erudizione delle note di commento, con il risultato di aprirsi a un pubblico di lettori il più largo possibile senza rinunciare al rigore scientifico, che è esattamente ciò a cui miravano gli illuministi.

La pubblicazione del Saggio, cui Voltaire lavorò a partire dal 1740, segnò una tappa nella storia della cultura settecentesca, perché diventò (insieme a L’esprit des lois di Montesquieu) una delle principali fonti d’ispirazione di tutta la storiografia del maturo illuminismo, che sarebbe culminata nella monumentale History of the Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon, capolavoro che sa fondere la tradizione erudita con la filosofia della storia dei philosophes, la cui più ambiziosa formulazione si trova proprio nel libro di Voltaire.

Il senso dell’impresa, ovvero le finalità che l’illuminista perseguiva, comprende innanzi tutto l’idea di una storia «universale», di cui è al tempo stesso ispiratore e nemico da battere il Discorso sulla storia universale del vescovo, teologo e grande oratore Jacques-Bénigne Bossuet. Di lui Voltaire ammirava, oltre alla prosa eloquente, l’aspirazione a una storia che componesse in un quadro complessivo quella delle singole nazioni e fosse – aveva scritto il teologo – come una carta geografica generale che comprende le mappe particolari; ma questo passaggio implicava il sacrificio dei dettagli, la determinazione del criterio con cui selezionare ciò che si sacrificava e quanto si conservava.

Contro la vana erudizione

Bossuet se l’era cavata facilmente, affidandosi alla concezione cristiana della storia: sebbene si dica «universale», sostiene Voltaire, l’opera di Bousset privilegia indebitamente la storia dei pochi popoli in seno ai quali si sviluppò e si diffuse il cristianesimo, a partire da quello ebraico, piccola nazione di scarsissima importanza nei confronti delle grandi civiltà antiche ed extra-cristiane, come la civiltà islamica o quelle fiorite in Cina o in India.

Il panorama di Voltaire cerca invece di abbracciare l’intero globo e a questo scopo non esita a sacrificare molte delle informazioni accumulate da quella che considera una vana erudizione: miti, leggende, prodigi registrati con la massima serietà dalla storiografia antica (dalla Bibbia come da Erodoto), ma anche le notizie pazientemente tramandate da annalisti e storici moderni sugli sviluppi delle guerre, sugli intrighi diplomatici o sulle successioni dinastiche. Ciò di cui conviene occuparsi sono invece, per Voltaire, i «costumi» e lo «spirito» delle nazioni.

Nella coeva Encyclopédie i mœurs sono definiti «azioni libere degli uomini, naturali o acquisite, buone o malvagie, suscettibili di essere regolate e dirette. La loro varietà presso i diversi popoli del mondo dipende dal clima, dalla religione, dalle leggi, dal governo, dai bisogni, dall’educazione, dalle maniere e dagli esempi». Diderot, autore della voce, cita Montesquieu, secondo il quale lo «spirito generale» di una nazione si forma dall’insieme dei seguenti fattori: «il clima, la religione, le leggi, le massime del governo, gli esempi delle cose passate, i costumi, le maniere».

Dunque, mentre Montesquieu cerca di definire lo «spirito generale» di cui farebbero parte i «costumi», Diderot indica gli stessi fattori, a cui aggiunge i «bisogni» e l’«educazione», ma lo fa per descrivere i «costumi», e non lo «spirito», dimostrando quanto siano fluidi questi concetti e quanto circolanti uno nell’altro, senza che sia possibile individuare una rigida gerarchia interna, sebbene poi ogni scrittore scelga di accentuarne questo o quel fattore.

L’influenza del clima, per esempio, enfatizzata da Montesquieu ma sostanzialmente negata da Helvétius in De l’esprit, viene ridimensionata da Voltaire, più interessato alla religione o alla dimensione economica, al commercio soprattutto, ma anche alle condizioni materiali di vita di quelle che oggi diremmo le masse. È così che a proposito dei selvaggi, tema allora assai dibattuto, nota come un urone o un irochese, un cafro o un ottentotto, siano più liberi e stiano meglio dei «nostri selvaggi», vale a dire dei contadini europei. La sua intenzione è studiare «in generale la sorte degli uomini piuttosto che i mutamenti sul trono». E aggiunge: «È al genere umano che si sarebbe dovuto prestare attenzione… ma la maggior parte degli storici ha descritto battaglie».

Il disprezzo di Voltaire per l’erudizione venne criticato fin da subito, ciò che scatenò la vendetta dei dotti di turno, che cominciarono a rilevare una per una tutte le inesattezza e gli errori contenuti nel Saggio; persino uno storico come Robertson, che dichiara di essersene ispirato nel suo View of the progress of Society in Europe, confessa tuttavia di non averlo mai citato, proprio perché Voltaire non riferisce le sue fonti, come fanno gli «storici moderni», e quindi non consente una discussione approfondita delle questioni più problematiche.

Elementi per una battaglia

In verità Voltaire utilizza volentieri Bayle e gli esponenti del cosiddetto libertinismo erudito, che gli offrirono armi per la sua battaglia contro la superstizione e l’intolleranza; quanto alla critica delle fonti, la sua attitudine fu determinata dalla convinzione per cui «ogni certezza che non è dimostrazione matematica non è altro che un’estrema probabilità». Ma è forse l’aggressiva polemica anticlericale a testimoniare esemplarmente i limiti di un razionalismo che imputa i conflitti religiosi solo all’ignoranza e alla superstizione, di cui approfittano i preti e i potenti, senza comprenderne le basi sociali. La storia è l’oggetto di una ragione che la indaga e la giudica, ma che non è essa stessa storica: ecco ciò che, secondo la paradossale tesi di Barthes, tiene Voltaire al di qua della storia, anche quando la indaga con l’appassionata volontà di denunciare le storture che hanno oppresso l’umanità.

Nonostante queste debolezze, il Saggio riesce a costruire un imponente affresco che abbraccia i novecento anni compresi tra l’età di Carlo Magno e Luigi XIII, cioè dall’VIII al XVII secolo: la prospettiva dalla quale si guarda è ovviamente quella dell’Europa occidentale, ma ottengono un ampio spazio le vicende di tutte le civiltà con cui essa è venuta a contatto, da quelle più vicine (l’impero bizantino e l’Islam) a quelle più lontane (le Americhe, l’India, la Cina, l’Africa), senza dimenticare che la lunga introduzione (da principio pubblicata a parte con il titolo di Filosofia della storia) propone un sintetico panorama dei più lontani antefatti, a partire dalla comparsa della specie umana, con un capitolo iniziale dedicato addirittura alla formazione del globo terrestre.

Il Saggio resta così una splendida testimonianza dei «costumi» e dello «spirito» dell’illuminismo, nonché la prova della capacità di una acuta intelligenza critica e di un stile straordinariamente brillante nel cogliere i grandi temi e i nodi del periodo studiato: forse non c’è capitolo del libro, o quasi, che lo stesso Voltaire non vorrebbe riscrivere oggi, ma quel che continua a catturare il lettore è la grandiosità del disegno complessivo, il suo ritmo nel dipingere fatti che suggeriscono di tornarci su.

 

 

 

 

Il Mattino (Caserta), giovedì 12 ottobre 2017, p. 23

Giuseppe Montesano

Voltaire, graffi su un’Europa di «selvaggi»

Il sarcasmo polemico del grande illuminista nella nuova versione del Saggio sulle nazioni

 

«Intendete forse voi per selvaggi degli zotici che sono dotati di poche idee e quindi di poche espressioni; che sono assoggettati, senza che ne sappiano il perché, a uno scrivano al quale consegnano metà di quanto hanno guadagnato con il sudore della fronte; che in certi giorni si riuniscono in una specie di granaio per celebrare cerimonie di cui non capiscono nulla; e che talvolta abbandonano la loro capanna quando batte il tamburo, per andare a farsi uccidere in terra straniera e a uccidere i propri simili per un quarto di quanto potrebbero guadagnare lavorando a casa loro? Di siffatti selvaggi ve ne sono ovunque in Europa. Le tribù americane e africane sono libere, mentre i nostri selvaggi non posseggono neppure l’idea della libertà». Chi parlava così, con sarcasmo veloce e tagliente ironia, dei buoni europei? Era lui, il Gran Maestro dell’irrisione polemica e dello sfottò filosofico dell’età dei Lumi, l’uomo rispettato e temuto in tutta Europa per la sua scrittura feroce, il sovrano assoluto della polemica contro il Passato e la Tradizione, era monsieur de Voltaire.

 

Lo sfottò sui selvaggi arriva da un’opera ritradotta e ripubblicata oggi in italiano da Einaudi, intitolata Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, curata da Domenico Felice con un’introduzione di Roberto Finzi. Si tratta di un’opera di storia universale che non parla affatto di ciò di cui parlano i libri di Storia, ma che indaga in maniera erratica e rapsodica esattamente ciò che è dichiarato nel titolo: perché una nazione ascende e decade; come si sviluppa un popolo a differenza di un altro; che cosa fa sì che alcuni popoli costruiscano un genere di civiltà evoluto e altri invece no. Ma soprattutto indaga l’influenza che la cultura antropologicamente intesa ha sulla formazione degli Stati, sulle leggi civili e religiose, e sulle maniere degli uomini di associarsi tra loro. In questo quadro sono disseminati i graffi del Voltaire scintillante di arguzia, come quello che sfotte gli europei sottomessi a troni e chiese, e del Voltaire obnubilato, come quello che è ossessionato negativamente dagli ebrei. Il Saggio, come del resto tutta l’opera di Voltaire, vive davvero solo a sprazzi, e quando il Gran Maestro dell’Illuminismo agisce da scrittore: «La storia dei grandi avvenimenti di questo mondo non è quasi altro che la storia di delitti», quando dipinge in una sola frase i Turchi o quando schiaccia in tre righe un Papa o un Imperatore, senza per questo trascurare di irridere il popolo superstizioso, sempre preda delle opinioni non verificate e della vox del potere.

 

Voltaire non è uno storico obiettivo, entità del resto molto discutibile e certo metafisica, perché non gli interessa esserlo. Gli interessano i personaggi e le loro vicende, i tic dei grandi uomini e le beghe dei piccoli, e le leggi e i costumi lo affascinano solo perché sono fatti dagli uomini: è attraverso le vite che Voltaire pensa di poter decifrare la Storia. Ma che scriva il Dizionario filosofico, la storia del Re Sole o una tragedia in versi, ciò che davvero fluisce inarrestabile dalla sua mente è il disgusto verso quella che lui chiama ignoranza. In ogni epoca Voltaire va a stanare la superstizione, dovunque si mette sulle tracce della religione dogmatica come repressione della libertà, e tutte le epoche gli appaiono gravate dalle nubi dell’ignoranza, del servilismo e dell’integralismo fideistico. Il suo sogno politico era l’Inghilterra del Settecento, uno Stato in cui secondo lui una magistratura indipendente impediva le violazioni dei diritti, e dove la religione come potere era sottomessa al potere dello Stato: un sogno che lo stesso Voltaire sapeva essere precario. La tolleranza, che era una delle sue parole chiave, consisteva per lui nel compromesso tra libertà individuali e leggi dello Stato, e poteva essere praticata solo se la cultura dei Lumi si fosse diffusa ovunque.

 

Ma Voltaire non voleva che il popolo avesse il potere: tutto doveva essere fatto per il popolo, niente doveva essere fatto dal popolo. Era antimoderno e antidemocratico? Non più degli attuali falsi profeti della modernità e della democrazia: e, rispetto a loro, era infinitamente più divertente. E si può forse rinunciare a quel ritmo contraddittorio da clavicembalo frizzante, beffardo e travolgente che risuona contro la stupidità di singoli e di masse in tutti i suoi capolavori romanzeschi e nel Dizionario? Beh, potere si può, ma sentendo in lontananza una voce che dice: non sai cosa ti perdi…

 

Autore: Domenico Felice

Studioso di Montesquieu e di Voltaire. Appassionato dei classici greci e latini.

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